Con un modulo più coraggioso eccoil Genoa che resuscita
Ad un sospiro dalla seconda sconfitta casalinga di fila – evento che non accade da tempo immemore – il Genoa riserva alla Roma l’identico, beffardo destino capitato all’Inter. Stavolta il tocco decisivo non avviene dal dischetto, ma nell’area piccola presidiata dall’attento portiere Svilar: la firma è di un altro difensore, De Winter, perfetto nell’imitare Vogliacco, a segno contro l’Inter.
La perfetta incornata del belga evita un’ingiustizia, scaccia la mini-crisi in agguato ed esalta la reattività di un Grifone che ha condotto il secondo tempo ala garibaldina, schiacciando la Lupa nella propria metà campo sino alla puntura velenosa nella coda del match.
Di più, francamente, i rossoblù non meritavamano, ma il punto sì, guadagnato con una vigorosa scossa di carattere dopo l’intervallo e anche grazie ai cambi – di modulo e di uomini – operati da Gilardino.
Certo, la seconda mezza gara tutta ardore non ha cancellato quella iniziale, davvero da dimenticare. Un Genoa pessimo, rimasto in partita per un quarto d’ora più che altro per la lentezza e la sterilità di una Roma ancora malaticcia ma abile, alla distanza, a lievitare e ad assediare un avversario intimidito e incapace di uscire alla trincea. I difetti di un Grifo troppo rinunciatario sono emersi tutti: la palla, appena respinta da quache genoano, tornava verso l’area di casa come un boomerang. Colpa di una squadra incapace di costruire una trama decorosa, con due attaccanti – Ekuban e Pinamonti – finiti nelle grinfie di difensori robusti e tonici e tre centrocampisti dignitosi nella copertura ma assolutamente assenti nell’impostazione, anche perché malamente assistiti dagli esterni Sabelli e Martin.
Esaurito il periodo di studio, si è assistito alla costante lievitazione dei giallorossi, che si procuravano spesso il varco per il tiro, peccando però di precisione e in qualche caso imbattendosi in un Gollini felino. All’ennesimo tentativo, ecco un primo miracolo del portierone genoano, sulla cui respinta il colosso Dovbyk colpiva in tap-in. Comici, al di là dell’esito, quei cinque minuti abbondanti trascorsi in sala Var per decidere se Mancini, in fuorigioco, avesse o meno disturbato lo stesso Gollini.
La ripresa offriva un Genoa riveduto e corretto, E qui occorre porsi un quesito. Possibile che Gila ricorrra alla difesa a quattro – a prescindere dalla caratura del rivale di turno – solo dopo essere andato sotto nel punteggio? Giusto tener fede ad una sistema di gioco primario, ma ogni tanto qualche variazione sarebbe tanta manna per gli occhi dei tifosi, speranzosi di ammirare una squadra intraprendente e volitiva, come può succedere quando si schiera un marcatore in meno e si potenzia centrocampo e prima linea.
La metamorfosi è scaturita anche dalla diversa incidenza dei coiddetti ricambi: Malinovskyi al posto di un Thorsby solo bravo a rompere il gioco e Vitinha, che non si è coperto di gloria sin quando, al minuto 96, non ha recapitato sulla fronte di De Winter il pallone più ghiotto del match. E nel serrate conclusivo si sono lasciati apprezzare pure Bohinen (rilievo di un Badelj stremato) e il baby Ekhator, soluzione emergenziale, all’insegna dell’”o la va o la spacca”.
I problemi di fondo, beninteso, rimangono. Anche questa partita ha riacceso il rimpianto per il folletto Albert, mai così tornato alla mente come in un secondo tempo caratterizzato dall’inconsistenza del Genoa in zona gol. Probabilmente, con l’islandee in campo, la Maginot giallorossa sarebbe crollata bem prima, e chissà che non si sarebbe festeggiata un’altra impresa.
Banditi i sogni di gloria, accontentiamoci, non prima di aver considerato che in estate la società rossoblù ha incassato un’ottantina di milioni e la Roma ha chiuso il mercato con oltre cento di passivo. Con questa po’ po’ di forbice, riflessa sul valore delle due rose, il pari per il Genoa è stato davvero grasso che cola.
PIERLUIGI GAMBINO